Identità versus/…
Identità versus/…
Chiara Mangiarotti
Mi inserisco in questo dibattito[1] attraverso un romanzo che mi ha molto colpito, Don Ponzio Capodoglio, l’ultima fatica di Giorgio Pressburger, narratore, autore e regista teatrale, saggista. Nato a Budapest nel 1937, rifugiatosi in Italia nel 1956, dopo l’invasione sovietica in Ungheria, è stata una importante figura nel panorama culturale italiano e internazionale. È scomparso nell’autunno del 2017, pochi mesi dopo aver dato alle stampe questo romanzo, a cui teneva moltissimo.
In un’intervista radiofonica a Felice Cimatti disse che, un autore non dovrebbe dirlo, ma lui consigliava a tutti di acquistare questo libro perché molto importante. Importante perché? Perché parla in forma romanzata, attraverso le avventure dello strampalato e donchisciottesco protagonista che dà il titolo all’opera, dell’”ossessione della propria, identità, origine e appartenenza” che “in questa epoca sanguinosa e caotica […] si è diffusa, come un morbo micidiale, su tutto il nostro pianeta”[2]. Quest’opera si prefigge perciò, leggiamo, di dare il proprio contributo per sconfiggere questa grave e contagiosa malattia: la ricerca dell’identità. “L’Identità purtroppo molto spesso uccide, sia chi cerca la propria, sia chi si oppone a chi la sta cercando”.[3] Non a caso due conflitti mondiali del secolo scorso, i più sanguinosi di tutta la storia dell’umanità, scoppiarono proprio a causa della ricerca dell’identità. Che cosa ci può liberare dai vincoli dell’identità?
Per rispondere a questa domanda seguiamo Negrescu, un’ambigua figura di spione-letterato-alter-ego dell’autore, nelle lettere che indirizza al protagonista, attraverso le quali inizia una disamina sulla metamorfosi che certi scrittori compiono, lui stesso per primo, per creare opere in una lingua diversa da quella materna. Scrive Negrescu: “Dal chiasso infernale ero ritornato a quel linguaggio che avevo perduto nella lingua di adozione: la lingua dei giochi d’infanzia. Essi costituivano per me il massimo tesoro, il massimo segreto de scoprire.”[4] Jacques Lacan ha scoperto che dietro al linguaggio c’è lalingua, l’uso primario e singolare di una lingua che serve al godimento e non alla comunicazione. Come asserisce Jacques-Alain Miller “Il linguaggio è il sistema, eventualmente grammaticale, il sistema linguistico, che si inventa a partire da lalingua.”[5] Continua Negrescu “ Possiamo noi soli, noi esseri umani, far convivere dentro di noi due o più “forme” mentali diverse[6], senza tragedia senza bisogno di rinchiuderci nel bozzolo, senza spargimento di sangue? Siamo progettati per essere di molte forme e è questo che ci può assolvere dai vincoli dell’identità che è stato uno dei miti, uno degli idoli, uno dei morbi pestilenziali dei secoli e millenni passati. La letteratura, l’arte, può, sotto questo aspetto, insegnare molto all’altra grande attività della mente umana: la politica.”[7]
Negrescu prosegue il suo discorso attraverso scrittori come Joseph Conrad, Kazuo Ishiguro e Samuel Beckett che hanno scritto in inglese o Franz Kafka e Paul Celan per la letteratura di lingua tedesca[8]. All’apprendimento della lingua nei primi anni di vita “sono legate anche le esperienze più terribili dell’esistenza dell’uomo […] L’esperienza traumatica della realtà le nostre emozioni più antiche, più forti sono vissute all’età in cui impariamo a parlare. Chi abbandona la lingua appresa a quel modo, abbandona il proprio se stesso più antico. Abbandona la realizzazione di quel ponte meraviglioso che collega emozione pensiero ed espressione. Ma ci sono altri ponti, più lontani meno conosciuti, le lingue straniere, che si possono costruire e percorrere ugualmente. Soltanto che questi nuovi collegamenti saranno completamente diversi da quelli di prima.”[9] Cosa rimane a questi scrittori delle immagini sensazioni parole emozioni dell’infanzia? Nulla nel caso di Beckett che, oltrepassati i confini della lingua, giunge nel deserto, il “bozzolo silenzioso”[10] dell’uomo della civiltà di massa. Oppure quella “tempesta di emozioni”[11] lascia il posto – è il caso di Ionesco – alla “bestia nuda e cruda”[12]del dramma “Il rinoceronte”, lo stesso si può dire per Kafka dove La metamorfosi di Gregorio Samsa, le cui parole chiuse nella sua coscienza sono per gli altri un “oscuro borbottio”[13] allude a quella dello scrittore stesso. Altri scrittori si servono della nuova lingua per descrivere esperienze troppo sofferte per poter essere affrontate nella lingua d’origine oppure, come Celan trasformano, innovandola, la lingua ospitante. Certi, come Joseph Conrad e Vladimir Nabokov, si fanno guidare dalle loro ossessioni e passioni che trasportano in un’altra lingua “miracolosamente adeguata”. Un altro tipo di trasmigratore linguistico è Italo Svevo che da piccolo aveva parlato in triestino o in tedesco e ha scritto in un italiano non proprio meraviglioso, eppure ugualmente è un grande scrittore. Dove risiede allora la sua grandezza? “Le verità di Svevo non non poggiavano sul linguaggio, bensì sull’inarrivabile acutezza di osservazione e di introspezione, resa possibile dalla psicoanalisi”[14]. E del resto anch’essa non si basa sul linguaggio – asserisce Negrescu e si chiede come avrebbe potuto altrimenti Freud, che non parlava russo, analizzare l’Uomo dei lupi. Per non parlare di Joyce “che ha usato parole di quarantadue lingue”[15]. Anch’egli in bilico tra due lingue, l’inglese e il gaelico, che con il trauma subìto dalla lalingua, e dalle sue conseguenze, ne ha fatto un’opera[16].
Non è un caso che tutti gli scrittori portati ad esempio, ed altri ancora che non ho citato, siano di sesso maschile, perché maschile è l’Uno, l’universale, la dittatura del Tutto che ha come conseguenza l’esclusione di alcuni, a cui questi scrittori linguisticamente “trasmigratori” hanno cercato un’alternativa.[17] Nel romanzo il sesso femminile è rappresentato da Sieglinde Kittwitz, la compagna di Ponzio Capodoglio, di cui ci viene detto che “non pensava minimamente di non esistere […] Origine? Lei non aveva né inizio né fine. Esisteva”[18]. La debordante, eccessiva Sieglinde, nella sua unicità è la metafora incarnata del(la/) donna lacaniana: non tutta sotto l’ombrello del Tutto perché può provare un godimento in eccesso di cui Lei stessa non sa niente, non ha dunque statuto di essere ma di esistenza.
La posizione di Negrescu è radicale: “Il linguaggio non è la casa dell’essere”[19]. Anche Lacan si distacca dalla proposizione heideggeriana parlando di dit-mension, dimora del detto, distinguendo il dire, universale, dal detto che assume per il soggetto una dimensione singolare[20]. A fondamento della negazione di Negrescu c’è la domanda “quanta parte di un’opera narrativa, ma direi di una qualunque persona vivente sia legata al linguaggio, e quanta parte no.”[21] E continua, argomentando che, chi non è in grado di esprimersi nella nostra lingua è un barbaro, etimologicamente un balbuziente, un non essere da eliminare come fecero i nazisti con i minorati mentali, ebrei, zingari e altri non ariani. Porta poi ad esempio Paul Celan – uno scrittore che, per scostarsi dalla lingua di chi aveva sterminato la sua famiglia ricorre nella sua poesia al lessico tedesco dell’ingegneria mineralogica – che in La verità della Poesia così scrive: alla ricerca “del luogo della mia propria origine […] Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all’incontro. Trovo qualcosa che è – come la lingua immateriale, eppure terrestre, planetario, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso, attraverso entrambi i poli e facendo questo interseca – è divertente- persino i tropici: trovo…un Meridiano” [22]. Per Paul Celan la verità della poesia è simile all’entità fittizia, che ospita uno spazio immaginario di un meridiano. Un’entità che per Pressburger è “malattia”, “autenticità”, un qualcosa che con le parole di Carlo Michaelstaedter[23] è “persuasione”, unicità dell’essere umano che è il primo e l’ultimo crea da sé il proprio mondo, in opposizione alla “retorica” che è parola vuota[24].
Possiamo accostare il “meridiano” di Celan al sinthomo di Lacan, nocciolo di godimento fuori senso che ha organizzato la storia di ognuno e a cui, al termine di un’analisi, il soggetto si identifica.
Come scrive A. Di Ciaccia in questo dibattito, il linguaggio è la casa dove veniamo “accolti” come stranieri. Se la psicoanalisi offre una “propedeutica soggettiva per limitare e assimilare lo straniero che è in ognuno di noi, [quale] propedeutica per limitare e assimilare lo straniero che chiede di essere accolto in una comunità”?[25] Un suggerimento, senz’altro parziale ma istruttivo, ci viene dalla scuola: quando in una classe un bambino “diverso”, poniamo un autistico, viene stigmatizzato ed escluso e nei compagni viene fomentata la diffidenza nei suoi confronti, si crea un problema, quando lo stesso bambino viene accolto a partire dalla sua diversità, diventa una risorsa per tutta la classe.
[1] Dibattito preparatorio al Forum Europeo “Lo straniero” tenutosi a Roma il 24 febbraio 2018.
[2] G. Pressburger, Don Ponzio Capodoglio, Marsilio, Venezia 2017, p. 9.
[3] Ibid., p.154.
[4] Ibid., p. 160.
[5] J.-A.Miller, Pezzi staccati, Astrolabio, Roma 2006, p. 16.
[6] Date dalla lingua di origine e da quella/e acquisite, nel caso degli scrittori di cui Negrescu sta parlando.
[7] G. Pressburger, Don Ponzio Capodoglio, op. cit., p. 160.
[8] Ibid., p. 142, 143.
[9] Ibid., p. 144.
[10] Ibid., p. 146.
[11] Ibid., p. 147.
[12] Ibid.
[13] Ibid.
[14] Ibid., p. 289.
[15] Ibid., p.161.
[16] Cfr. J.-A. Miller, Pezzi staccati, op. cit. p. 39.
[17] Cfr. in questo dibattito M.-H. Brousse, L’etrange qui erre.
[18] G. Pressburger, Don Ponzio Capodoglio, op. cit., p. 138. Corsivo nostro.
[19] Ibid., p. 283.
[20] Cfr. J. Lacan, Il seminario XVIII p. 110, J: Lacan, Il seminario XX p. 21.
[21] Ibid., p. 283.
[22] La verità della Poesia, discorso pronunciato nel 1960 in occasione del conferimento del premio letterario dell’allora Repubblica Federale Tedesca intitolato a Georg Büchner e ora contenuto in un volumetto di sue prose recante questo titolo, in G. Pressburger, Don Ponzio Capodoglio, op. cit., p. 288.
[23] Carlo Michaelstaedter, filosofo italiano nato a Gorizia nel 1887 da famiglia ebraica e morto suicida a 23 anni nel 1910.
[24] C. Michaelstaedter, La persuasione e la rettorica, tesi di laurea in filologia.
[25] Cfr. A. Di Ciaccia, Lo straniero.