Il Giovane Favoloso
Il giovane favoloso, Italia 2014, regia di Mario Martone, sceneggiatura di Mario Martone e Ippolita di Majo. Tra i principali interpreti: Elio Germani, Massimo Popolizio, Raffaella Giordano, Paolo Graziosi, Isabella Aragonese, Valerio Binasco, Gloria Ghergo, Antonio Ranieri, Anna Mouglalis, Federica De Cola.
Il giovane favoloso si apre sulla scena di un giardino. Tre bambini vi irrompono correndo, gioiosamente vocianti: Giacomo e i fratelli Giacomo e Paolina. È un’apparizione fugace, brevissima. Subito dopo li vediamo nel chiuso di un ambiente severo, innanzi a un pubblico compassato, dare prova di sé in un saggio, interrogati dal precettore. Il padre Monaldo, impaziente di sentire dal primogenito Giacomo le risposte ai difficili esercizi matematici posti, si mostra orgoglioso dei risultati raggiunti dal figlio prediletto. La prima parte del film, ambientata a Recanati, ci mostra in un lampo il mito dell’infanzia e di una luminosa felicità perduta; per passare subito al tentativo del suo recupero da parte di Giacomo adolescente, attraverso lo “studio matto e disperatissimo”. Nelle stanze della biblioteca, sotto lo sguardo vigile del padre, non tarda a rivelarsi il suo precoce talento di poeta e scrittore. Intorno a questo nodo è incentrato tutto il film, come il regista dichiara fin dal titolo Il giovane favoloso, ispirato alle parole della scrittrice Anna Maria Ortese: “in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso” . “Favoloso”, da intendersi non solo nell’accezione di eccezionale, ma anche e soprattutto, di capacità affabulatoria. Come scrive il fratello Carlo, fin da piccolo Giacomo aveva una capacità straordinaria di inventare delle favole che proseguiva per più giorni come se si trattasse di un romanzo “ebbe fin da fanciullo l’abilità straordinaria d’inventar fole o novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come un romanzo”.
Il linguaggio è un dono che tutti, alla nascita, riceviamo dall’Altro. Si manifesta all’origine come balbettio delle parole – lalingua la chiama Jacques Lacan – qualcosa che porta ancora traccia della fisicità del corpo e che riecheggia nelle liriche mormorate dal giovane poeta. Il dono del linguaggio incide la parola nella carne, che la incorpora sempre e solo secondo il disegno insondabile della contingenza. Per Giacomo, il marchio primario e indelebile è stato quello materno, una parola mortificante di cui il suo corpo porterà per sempre le stimmate. Martone ce ne offre una raffigurazione plastica nel ritratto della madre Adelaide: una donna priva di sentimenti, mummificata nell’armatura dei suoi doveri di amministratrice del patrimonio famigliare e di una religiosità tanto bigotta quanto mortifera.
La gelida crudezza della madre è tuttavia velata dalla figura del padre Monaldo che il regista ci presenta come un uomo dei suoi tempi, un reazionario, ma allo stesso momento, come un padre che ama profondamente Giacomo. Monaldo ricopre affettuosamente la funzione materna, lo vediamo mentre aiuta il figlio a tagliare la carne a tavola e perfino a urinare; lo sostiene e sprona nello studio; crede in Giacomo, nonostante i suoi ottusi pregiudizi. In biblioteca lo richiama, scandalizzato dalla parola “ombelico” pronunciata dal figlio che sta traducendo Omero dal greco con il precettore. È geloso di Giordani, primo e grande mentore del figlio, nasconde le sue lettere, per dar prova infine, nel corso di una visita dello scrittore, di tutta la sua fede reazionaria.
Del dono de lalingua Giacomo ne ha fatto poesia ma non ha potuto evitare la devastazione del suo corpo. È il caso di dire che “la lingua batte dove il dente duole”, più la lingua batte, più si ripercuote sul suo corpo fragilizzato dalla mortificazione materna. Leopardi era convinto che la sua malattia, da lui definita come un “cieco malor”, come scrive a Pietro Giordani, un male di non chiara origine, fosse da attribuire all’eccessivo studio. Sembra ormai accertato che Leopardi soffrisse del morbo di Pott o tubercolosi ossea, ma ciò non toglie importanza alla componente “psicosomatica” della sua affezione. Il regista porta in primo piano il corpo di Giacomo, ne sottolinea i tormenti fisici, non certo come causa del suo sentire e del suo esprimersi – gli fa esclamare: “Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto”; e neanche come impedimento che lo fa indulgere nel pessimismo – “Ottimismo, pessimismo, che parole vuote” . Per Leopardi infatti “Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia “. Il divertimento che lo ammazza è la traccia indelebile della parola dell’Altro nell’evento di corpo. Giacomo ne ha fatto il suo sinthomo facendolo passare nel linguaggio attraverso il processo chiamato da Freud sublimazione. Con un neologismo demitizzante, Lacan gli dà un nuovo nome: S.K.beau, salire su uno sgabello per elevarsi al bello. Fare dell’evento di corpo un oggetto d’arte. L’arte è per Giacomo vita, è salvezza dalla morte introdotta dalla parola materna che è anche sguardo che accoglie o respinge. E può accecare.
Lo vediamo nella sequenza in cui Adelaide commenta senza nessuna pietà, come giorno lieto per Dio che accoglie in cielo la sua anima, la morte della giovane fanciulla che Giacomo adolescente, seduto alla sua scrivania, osservava dalla finestra, affascinato dalla sua bellezza. Subito dopo, Giacomo guarda la ragazza sdraiata nella bara che per un attimo apre gli occhi. Lui, a sua volta, strabuzza gli occhi e si precipita fuori della stanza. Nella scena successiva, è coricato a letto con una benda nera sugli occhi. Il regista si serve del dato dell’affezione agli occhi di cui Leopardi soffriva, per operare un transfert di morte dalla madre alla donna, transfert che segnerà l’infelicità dei suoi amori.
La poesia, la scrittura sono per Giacomo una spinta vitale che lo conduce a uscire dalle mura soffocanti di Recanati e della dimora paterna – prima con il pensiero, quando recita le sue poesie rivolto al paesaggio luminoso che scorge al di là dell’angusto recinto in cui è rinchiuso, poi con la partenza reale – e lo sostengono nella sua personale sovversione. Sarà questo il motivo della sua effige capovolta nel manifesto del film?
Con un salto spazio temporale, ritroviamo Giacomo a Firenze, nell’ambiente mondano e letterario dove inizia il suo sodalizio con il napoletano Antonio Ranieri. Qui si consumeranno nella delusione sia il “grandissimo, forse smodato e insolente desiderio di gloria” cui aspirava, svilito e deriso dagli intellettuali con cui viene a contatto, che la passione amorosa per la bella Fanny Targioni Tozzetti. Il sogno d’amore di Giacomo inizia sotto gli auspici di Eros e Psiche, di cui il nostro ammira la statua nel salotto di Carlotta Lenzoni e sussurra a Fanny: “Amava ad occhi chiusi, senza vedere chi fosse l’amato… Non c’è favola più bella”. Poco dopo, Fanny, Antonio e Giacomo, attori di un improbabile triangolo, giocano a mosca cieca: Fanny è bendata, novella Psiche, i tre si rincorrono ridendo, ma l’incanto svanisce in un attimo, quando le mani della donna incontrano il corpo sgraziato di Leopardi. L’illusione del poeta si infrange definitivamente quando scorge l’amata abbracciata all’amico nella cornice di una finestra illuminata.
L’attenzione del regista si rivolge allo sguardo, contrapposto alla visione: Giacomo può illudersi di accedere ad uno sguardo d’amore solo nell’oscurità, mentre il quadro della finestra coincide e gli conferma il suo fantasma di esclusione. I suoi occhi sono definitivamente desertificati, “deserted soul deserted eyes”, come recitano le parole della colonna sonora, l’uomo abbandona le sue insegne, cappello e bastone, il suo corpo si accascia sulla riva dell’Arno. La madre terra a cui si abbandona è simbolizzata poco dopo nella statua gigantesca e nuda della Natura, ispirata al Dialogo della Natura e di un Islandese, che gli appare con le sembianze della madre. Come questa terribile e distaccata, si sgretola, nemica e indifferente alle sorti dell’umanità. Conscio che la natura abbia votato gli uomini all’infelicità, Giacomo è altrettanto convinto, con grande anticipo sui tempi, che la felicità sia un’invenzione della modernità: “rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta da individui non felici”.
L’ultima parte si svolge una Napoli funestata dal colera. Una sorta di discesa agli inferi di Giacomo, con il corpo dalla gibbosità prominente sempre più deforme, ma con un’ironia che non lo abbandona mai: “Il mio fisico è così debole che non è capace di sviluppare una malattia forte che lo possa ammazzare”. In un crescendo grottesco che vede il suo apice nella visita del protagonista a un sordido lupanare, dove da una tenda sbucherà perfino un ermafrodito, l’episodio napoletano contrasta con le scene di Torre del Greco, sotto il Vesuvio in eruzione, dove la natura assurge al sublime. La potenza del vulcano e l’immensità della volta celeste sono l’espressione di una natura che confina l’uomo nella sua piccolezza e vulnerabilità. Il film si chiude con la lettura di alcuni passi de La ginestra. Come il fiore del deserto, l’uomo è condannato a soccombere alla natura nemica, ma se ne avrà consapevolezza, potrà almeno resistere al fato comune insieme agli altri uomini. Con questa canzone, considerata il suo testamento, Leopardi ha eternizzato in poesia la propria convinzione sintomatica.
Chiara Mangiarotti