Armenity è il titolo dell’allestimento presso il Padiglione della Repubblica di Armenia per la 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, premiato con il Leone d’oro. Il luogo che lo ospita è l’isola di San Lazzaro degli Armeni, situata nella laguna di Venezia con il suo Monastero Mekhitarista, uno dei più importanti centri della cultura armena nel mondo, sede da circa tre secoli di una tipografia e di una biblioteca che conserva preziosi manoscritti. Nel centenario del genocidio armeno, l’esposizione, curata da Adelina Cüberyan von Fürstenberg, riunisce artisti internazionali di origine armena sul tema della diaspora e di una identità dispersa da reinventare costantemente. Gli artisti presenti sono: Haig Aivazian, Nigol Bezjian, Anna Boghiguian, Hera Büyüktaşçiyan, Silvina Der-Meguerditchian, Rene Gabri & Ayreen Anastas, Mekhitar Garabedian, Aikaterini Gegisian, Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Aram Jibilian, Nina Katchadourian, Melik Ohanian, Mikayel Ohanjanyan, Rosana Palazyan, Sarkis, Hrair Sarkissian.

Qualche suggestione ricevuta da alcune opere:

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Nel giardino del chiostro del monastero, Rosana Palazyan (nata a Rio de Janeiro, dove vive e lavora, nel 1963)  presenta Por que Daninhas / Why Weeds? 2006-2015. Dieci fotografie stampate su vinile ci mostrano piante considerate infestanti: ciascuna di esse è fissata come un reliquiario sotto un materiale trasparente. Le radici sono sostituite da frasi sulle erbacce ricamate con i capelli dell’artista – “entrambi i DNA, l’umano e il vegetale, sono rappresentati” – come queste:

…sono indesiderate e devono essere distrutte…

…invadono aree delle specie di maggior interesse…

…hanno una grande capacità di sopravvivenza e di moltiplicazione della specie…

…le loro popolazioni crescono in situazione di disordine…

…competono per lo spazio e per le sostanze nutritive…

…sono viste come nemici da controllare…

Frasi simili possono altrettanto essere riferite alle vittime di genocidi, agli immigrati, agli emarginati, a tutti i tipi di diversità e di esclusione. Nelle sue ricerche per questo lavoro, Palazyan ha scoperto che “certe specie di farfalle sono estinte a causa dello sterminio delle erbacce”. Ognuno di noi, in certe condizioni, se è nato al posto sbagliato, se compete per lo spazio e il nutrimento con culture economicamente più produttive, può diventare un’erbaccia da sterminare. Accanto all’istallazione, nello spazio del chiostro, le erbacce non saranno rimosse e cresceranno insieme alle piante esistenti. E allora in questo giardino, metafora della convivenza umana, chi sarà l’erbaccia?

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Ada Ewe vierge di Sarkis (nato a Istanbul nel 1938, vive e lavora a Parigi) – un artista che, significativamente, alla Biennale rappresenta anche la Turchia – è un accessorio di metallo formato da trenta griglie incernierate e impilate una sull’altra, ognuna delle quali supporta un foglio di carta bianco al centro del quale è applicata una figurina scolpita in legno che ricorda le statuine rituali africane. Il risultato è una sorta di “libro” che si può “sfogliare” dall’alto verso il basso o, anche, nel senso inverso. Sul primo foglio troviamo una figura umana asessuata, il braccio destro alzato verso il cielo come un forcone, mutilata del dito pollice della mano, così come del braccio sinistro. La mano indica il cielo, ma per questa ascesa sarà necessario attraversare, girando all’indietro ogni griglia su cui troviamo figure diversamente mancante degli arti, “testa-piedi” evocanti Il grido di Munch. Chi è la vergine Ada Ewe? “Ada” è un palindromo che, come l’istallazione stessa, dovremo leggere all’indietro per giungere infine alla scultura di “Ewe vierge”, l’agnella – termine raro in italiano e, credo, anche in inglese – sacrificale che rappresenta una bambina integra, con tutti i suoi arti. Ma per giungere a questa figura originaria sarà necessario attraversare le stratificazioni traumatiche, in un percorso che si può paragonare a quello di un’analisi. Attraverso il lavoro dell’artista, quell’attraversamento diventa uno spazio collettivo di memoria della sofferenza umanale cui tracce devono essere gelosamente conservate per diventare una fonte viva da cui potrà scaturire del nuovo, sia a livello soggettivo che della collettività. Come è evidenziato in un altro lavoro dell’artista, Atlas de Mammuthus Intermedius, 2014, una vertebra di Mammut restaurata secondo la tecnica giapponese Kintsugi, risalente al XV secolo. Un sottile nastro d’oro percorre le linee di assemblaggio del reperto osseo, sottolineando e valorizzando le fratture anziché celarle. La memoria dei traumi e delle ferite del passato, rappresentata dalle ossa dell’animale preistorico sarà preziosa per poter generare il futuro.

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Due opere di Hera Büyüktaşçiyan (nata a Istanbul, dove vive e lavora, nel 1984) istallate nella biblioteca del convento sono incentrate sulla lettera armena nella sua materialità. Letters from Lost Paradise, 2015, è un congegno formato da parallelepipedi in legno sui quali sono fissati i punzoni in bronzo di lettere dell’alfabeto armeno che compongono la frase, traslitterata dall’inglese, “Letters from Lost Paradise”. L’autore adotta la strategia di alcune comunità armene dell’Anatolia che, ieri come oggi, pur non conoscendo la lingua armena, ne sanno impiegare l’alfabeto per produrre testi in lingua turca; e si ispira a Lord Byron che aveva soggiornato sull’isola perché voleva assolutamente imparare la lingua del Lost Paradise. I parallelepipedi muovono le lettere producendo un lamento angosciante: evocazione del trauma del popolo armeno e allo stesso tempo del trauma del linguaggio che segna per ognuno la perdita del paradiso. The Keepers, 2015, è un’istallazione composta da calchi di cera delle mani dell’artista che trattengono lettere di bronzo tra i libri, in vari angoli della biblioteca. In queste sculture, la lettera intrattiene un rapporto con l’artista, con il suo corpo vivente, attraverso le sue mani e dialoga con la mummia egiziana conservata nella stanza come rappresentazione del passato lavorato dal linguaggio.