JOAN JONAS, THEY COME TO US WITHOUT A WORD, 2015. PRODUCTION STILL. COURTESY OF THE ARTIST.

JOAN JONAS, THEY COME TO US WITHOUT A WORD, 2015. PRODUCTION STILL. COURTESY OF THE ARTIST.

Il mondo sfolgorante è il titolo dell’ultimo romanzo della scrittrice americana Siri Hustvedt la cui protagonista, Harriet Burden, è un’artista. Convinta che la sua appartenenza al sesso femminile abbia impedito alla sua arte di ricevere il giusto riconoscimento, decide di impegnarsi in un singolare esperimento che intitola Maskings e che durerà cinque anni: ingaggia tre uomini che firmeranno le sue opere, esposte in altrettante personali, in tre gallerie di New York. Il suo intento non è solo quello di denunciare i pregiudizi misogini nei confronti delle artiste, ma anche di mettere a nudo i meccanismi della percezione che influenzano la ricezione dell’opera d’arte. Nel corso della sua attuazione però, Burden scopre che ogni maschera trasforma la sua arte in una “realtà indistinta creata tra loro due”[1], tra lei e l’uomo maschera.

Il romanzo ha una struttura complessa. L’io narrante sostiene di essere venuto a conoscenza del lavoro di Harriet Burden dalla casuale lettura di una rivista in cui l’artista, per interposta persona, illustra il suo progetto e l’intenzione di renderlo pubblico. Scopre poi che Burden è morta da due anni. Entra in contatto con il figlio, la figlia, il compagno dei suoi ultimi anni di vita; prende visione di ventiquattro diari privati che l’artista aveva cominciato a scrivere dopo la morte del marito, un celebre gallerista newyorkese. I taccuini, prevalentemente autobiografici, contengono inoltre note che spaziano nei campi più disparati, dalla filosofia alla psicoanalisi, storia, teratologia, neuroscienze, letteratura. Il romanzo è infarcito di questi colti riferimenti, il titolo stesso Il mondo sfolgorante è tratto dal romanzo di una nobile e dimenticata filosofa e poetessa del diciassettesimo secolo, Margaret Cavendish, che Burden elegge a suo alter-ego.

Il libro si compone di brani estratti dai taccuini riguardanti Maskins e dichiarazioni scritte raccolte dall’autore di persone che erano state vicine all’artista. Le opere di Burden, descritte nei dettagli, fanno riferimento, spesso esplicitato, ad artiste come Louise Bourgeois, Kiki Smith, Annette Messanger, Joan Jonas.

Tutto comincia con l’amore e la sua perdita, il marito muore improvvisamente davanti a lei mentre sta mangiando un uovo alla coque a colazione. Harry, è così che la chiamano gli amici, per allontanarsi dalla scena artistica di Manhattan, dove per anni era stata soprattutto la giovane moglie di un uomo di successo mentre, a suo dire, le sue opere erano state poco apprezzate, si trasferisce a Brooklyn in un grande loft. Lì, per mitigare la sua solitudine, ospita artisti randagi e comincia a lavorare intensamente. Costruisce “minuscole case storte, con le pareti coperte di scrittura” dove “figure gelatinose fluttuavano vicino al soffitto, sospese a fili invisibili”[2];”case complicate, piene di bambole e fantasmi e animali”[3].

La morte del marito segue quella dei genitori, wasp ed ebrei, professore di filosofia il padre –anch’egli morto improvvisamente – e assistente universitaria la madre. Harry beve per dormire, ha una fame grande e implacabile di un cibo che mangia e non riesce a trattenere e che solo le parole dello psicoanalista a cui si rivolge riusciranno a fermare.

Harry realizza creature che assomigliano al marito. Certe sono inserite in piccole stanze trasparenti, o raffigurazioni gigantesche dell’uomo, compresso in una stanza minuscola, come Alice nel paese delle meraviglie. Poi ad esse cominciano a mescolarsi  figure del padre, con iscrizioni sugli abiti, o chine su una pagina di Spinoza. Padre e marito, entrambi elusivi, entrambi amati, si confondono nella mente di Harry e la rabbia per il potere che essi avevano su di lei provoca la loro crescita e il loro rimpicciolimento. Chiama questi esseri metamorfi e li riscalda per animarli. La sua liberazione tardiva lascia ad Harry il rimpianto per un altro corpo, un altro stile di esistenza, certa che se il suo aspetto fisico fosse stato diverso, il suo lavoro sarebbe stato accolto in un altro modo.

Harry non vuole vivere come un uomo, ma vuole una maschera, convinta con i Greci “che la maschera in teatro non era un camuffamento, ma uno strumento di rivelazione”[4].

La prima sarà quella di un artista fino ad allora sconosciuto, certo Anton Tish. Al centro dell’istallazione The History of Western Art, che riscuoterà certo successo, domina la scultura gigante di una donna distesa, trasposizione tridimensionale e ingigantita della Venere di Dresda di Giorgione-Tiziano. La figura è ricoperta da centinaia di piccole riproduzioni, fotografie e testi, citazioni della cultura e dell’arte di tutti i secoli, dalla pittura vascolare greca all’orinatoio di Duchamp, una sorta di progetto Mnemosyne di Aby Warburg proiettato su uno smisurato corpo femminile: la Donna Illustrata. La osserva un manichino maschile in completo blu e cravatta rossa, trasposizione di un Cupido alato. Tutt’intorno sono presenti sette grandi scatole di legno, illuminate all’interno con piccole finestrelle sbarrate che mostrano allo spettatore che si inginocchi sinistri teatrini domestici. Da dove provengono queste figure?

Harriet dice di avvertire in sé “una cosa orribile, grassa e pesante”[5], una cosa fatta di paura un embrione che potrebbe esplodere se non lo tiene sotto controllo. “È paura, paura congelata senza immagini, parole o figure. E così, per colpa della paura e dei desideri creiamo falsi ricordi, brutti pensieri simili a sogni che ci contagiano come un virus [idee sulle persone che vivono dentro di noi]  e rimangono anche dopo che sono morte. Io sono fatta di morti”[6].

Nel seminario l’Etica della psicoanalisi Jacques Lacan parla della Cosa, das Ding, una zona centrale ma esclusa, inavvicinabile, nucleo di godimento – godimento cattivo , che non ci vorrebbe, al di là del principio di piacere – al centro della realtà psichica del soggetto. La sublimazione sostituisce degli oggetti a questa zona incandescente, oggetti che vanno a bordare questo vuoto. Il principio di piacere non può raggiungere questa zona. Per farlo occorre una forzatura in cui l’oggetto è elevato alla dignità della Cosa. Attraverso le sue opere, Harry riesce a trasporre in immagini quello che prova, la sensazione muta della Cosa.

Il suo piano è quello di ripetere più volte l’inganno delle mostre sotto mentite spoglie, per poi uscire dall’ombra ed umiliare coloro che per anni l’avevano ignorata.

La seconda esposizione si intitola Suffocation Rooms: consiste in una serie di 7 stanze identiche, 7 cucine squallidamente arredate con la tavola apparecchiata per la prima colazione, con due metamorfi per ogni stanza, uno specchio al posto della finestra.

Man mano che si procede di stanza in stanza, fa sempre più caldo, i mobili diventano sempre più grandi e rovinati, a parte una scatola-baule che rimane invariata, i colori sono più cupi i metamorfi sempre più caldi e invecchiati, lo spettatore è trasformato in un bambino.

Ad ogni stanza successiva, la scatola è sempre un po’ più aperta e lascia intravvedere una creatura di cera che alla fine balza fuori: autoritratto di Harry, metà femmina metà maschio, pelle sottile che lascia intravvedere gli organi interni. L’opera è firmata da un artista di strada, nero e gay, P. Q. Eldridge, che sta al gioco, specchiandosi nella solitudine di Harry, insieme si divertono a creare l’opera, e, durante la mostra, è un bravissimo attore all’altezza del suo ruolo con il pubblico. Harry comincia a costruirsi il personaggio della ricca mecenate promotrice di giovani artisti e collezionista. La mostra, anche se patisce del crollo delle torri gemelle, suscita un discreto clamore e attira un pubblico di gente sofisticata.

Infine il candidato ideale per il terzo evento di Harry: Rune, artista affermato, dall’aura perfetta, che fomenta la cultura della sua celebrità auto riprendendosi in tempo reale nella quotidianità. Il personaggio affascina Harry che non si rende conto del pericolo che corre a prendere come maschera un artista così celebre.

Il titolo della terza mostra è Benaeth, in inglese “sotto”, che, se può alludere ai processi inconsci, è anche il titolo di un film statunitense del 2013 diretto da Ben Ketai: in seguito al crollo improvviso di una miniera, i minatori dovranno fare i conti con la lunga attesa dell’arrivo dei soccorsi che lentamente li condurrà all’esplodere di conflitti tra loro fino a raggiungere la follia. E come nel film, l’esposizione non è che il risultato di uno psicodramma tra i due che si concluderà in modo folle, il match finale di un progetto in cui Harry sarà irrimediabilmente perdente. La mostra è un labirinto dalle pareti translucide che, come i corridoi, variano in dimensioni. Nel pavimento e nelle pareti sono affacciate delle finestre da cui si intravedono scatole con vari oggetti tra cui le maschere indossate da Harry e Rune in uno scambio di ruoli: Harry è l’uomo che maltratta la partner femminile, Ruina, impersonata da Rune in un gioco sado-maso. La mostra riscuote un grandissimo successo, Harry crede sia giunto il momento della rivelazione pubblica e si reca per questo da Rune che in un attimo distrugge le sue aspettative, umiliandola nel mostrarle le prove tangibili di essere stato l’amante del suo defunto marito. Lei, Harry, è Ruina, la bambina impietrita che parla a sproposito. Beneath senza il suo nome non sarebbe stata nulla e lui rivendica quell’opera come sua, inutile che lei avanzi pretese, tutti sanno che soffre di esaurimento nervoso.

Scrive Husvedt “Aveva avuto ragione lei, più di quanto non avesse mai immaginato. Le autorità artistiche non avrebbero mai riconosciuto i suoi lavori, proprio perché erano suoi. Harriet Burden non era nessuno, un grande grosso nessuno senza volto.”[7]

Harriet elabora il lutto attraverso l’arte, ma non può esporre le sue opere senza attribuirsi un corpo maschile, attraverso le maschere. Sebbene Burden sia conscia che le maschere avrebbero cambiato la natura stessa della sua arte, non può sapere fino anche punto le complicate relazioni tra lei e gli uomini da lei scelti come alter ego, soprattutto l’ultimo, coinvolgeranno il reale del suo corpo implicato nella creazione artistica.

La sublimazione implica una forma di godimento. Harry sublima, crea delle opere che sono una proiezione della sua immagine ma attraverso le quali non arriva a incidere sul godimento che abita il suo corpo. Non arriva, come dice Eric Laurent, a operare una manipolazione dell’immagine del corpo che permetta di dare un senso all’invisibile, di rendere visibile il movimento dell’anima o la forma della soggettività[8]. Vale a dire, a ridurre il suo sintomo a resto di godimento non ulteriormente riducibile: sinthomo come lo chiama Lacan.

Solo così Harry avrebbe potuto giungere a liberarsi del peso – il suo cognome Burden, in iglese  significa appunto peso – della Cosa che la ingombra; e a scrollarsi di dosso il fardello del suo patronimico in cui è riassunta l’eredità paterna e l’identità in cui è fissata. Harry fantastica di riuscirvi nella rivelazione finale. Un progetto fallimentare in partenza perché implica di dover fare i conti con l’Altro anziché basarsi esclusivamente sul soggetto. Tutto questo non sarà senza conseguenze per Harry, in un finale che vi invito a scoprire.

Chiara Mangiarotti

 

[1] Siri Husvedt, Il mondo sfolgorante, Einaudi, Torino 2015, p. 4.

[2] Ibid.  p. 18

[3] Ibid. p. 24

[4]Ibid.  p. 63

[5] Ibid. p. 66

[6]Ibid.  p. 119

[7] Ibid. p. 320.

[8] Seminario di É. Laurent in Radio Lacan 2014-2015: Studi Lacaniani dell’ECF “Parlare lalingua del corpo”. Episodio 3. Registrato il 20-01-2015.