Heart of a Dog
Heart Of A Dog è un film di Laurie Anderson presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2015 e passato nelle sale italiane per due giorni nel settembre 2016. Primo lungometraggio della cantante, artista e performer che per l’edizione italiana ha affrontato l’ardua impresa di prestare la sua voce al doppiaggio in lingua italiana confermando così, come lei dice, di essere soprattutto una cantastorie. Il film è dedicato al marito Lou Reed, scomparso nel 2013, e ne è l’elaborazione del lutto attraverso la metafora di Lolabel, un cane rat terrier, una razza particolarmente “soggettivata” e un po’snob – certi ordini lo annoiano, non lo interessano – è dimostrato che possa apprendere un certo numero di vocaboli. In scene esilaranti del film, che, nonostante il tema gioca anche sul registro dell’ironia, vediamo Lolabel impegnata al pianoforte o a dipingere e modellare la plastilina con cui crea ciotoline, utilizzate poi come sandali giapponesi ricavati dalle impronte delle zampe.
Laurie Anderson ha affermato che alla realizzazione del film l’ha guidata la frase di David Foster Wallace “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, che così interpreta: “Noi proviamo a vedere quelli di cui abbiamo bisogno ma la maggior di questo è una proiezione di quello che noi vogliamo e pensiamo che quella persona sia. E vediamo a malapena chi ci sta davvero di fronte. E per la maggior parte del tempo siamo ciechi, vediamo solo quello che vogliamo vedere. Abbiamo di fronte dei fantasmi. I cani sono più nel presente. Non hanno piani, progetti, rimpianti.”(1)
Di questo parla la storia del film narrata dalla voce off di Anderson, come un flusso di coscienza montato con immagini, manipolate, disegnate colorate e giocate in trasparenza, tratte da vecchi Super8, materiali di repertorio, circuiti di sorveglianza, film d’animazione; dipinti come quello bellissimo, di Goya, con testa di cane su fondo oro, oltre alle sequenze con Lolabel protagonista. I ricordi legati ai luoghi dell’infanzia di Laurie Anderson sono evocati nelle immagini in cui prevale il bianco algido, distese innevate, paesaggi immobili, alberi spogli e pali dell’elettricità come neri scheletri. Poi nel ghiaccio, dal fondo aureo del dipinto di Goya, dilaga l’oro della vita. Due volte Laurie è riemersa dalla morte e tornata alla vita. A dieci anni si è lanciata dal trampolino di una piscina in un salto mortale, si è rotta la schiena. I medici le avevano detto che non avrebbe più camminato ma, per fortuna, avevano torto.
Secondo il Libro tibetano dei morti, il Bardo è quel momento di passaggio tra la morte e la reincarnazione che dura 49 giorni, in cui la coscienza del defunto, staccatasi dal corpo, si deve confrontare con tutti i legami della sua vita passata per liberarsene e rinascere in una nuova forma di vita. Laurie Anderson vi si riferisce nel film e altrettanto nei grandi disegni a carboncino presenti alla splendida mostra “The Withness of the Body” realizzata nel Chiostro di S. Caterina a Formiello a Napoli. Come recita il titolo, quello descritto come “Bardo” è un processo che riguarda “lo stare con” il corpo. Un processo lacerante e doloroso, sconvolgente, che, se nel Libro dei morti vale per il defunto, nondimeno e soprattutto vale per chi resta. Per Freud il lavoro del lutto consiste nell’evocare e sovrainvestire ad uno ad uno i ricordi e le aspettative che ci legavano all’oggetto scomparso in modo che, in relazione a ciascuno di essi, la libido possa distaccarsene. I tratti conferiti all’oggetto d’amore sono delle prerogative narcisistiche perché nell’amore l’oggetto si è messo al posto dell’ideale dell’io. “Il lutto consiste nell’autentificare la perdita reale, pezzo per pezzo, brandello per brandello, segno per segno, elemento I grande per elemento I grande fino a esaurimento. Quando la cosa è fatta, il lutto è terminato.”(2)
Se nei disegni questo “cambiamento di stato” si compie nella gestualità di movimenti circolari e violenti che, nel disimpasto delle pulsioni – Eros, l’attaccamento, e Thanatos, il distacco – letteralmente riducono il corpo a pezzi, nel film prevalgono le immagini velate da uno schermo diafano il cui limite, come ci insegna Joyce, è il corpo.(3)
In Hearth of a Dog il corpo è innanzitutto quello di Laurie Anderson: all’inizio è la protagonista di un sogno – disegni animati realizzati da lei stessa – in cui, in un letto di ospedale, partorisce Lolabel. Alla gioia si mescola la colpevolezza perché lei stessa ha ordito il piano di farsi cucire Lolabel nella pancia per poterla partorire. Il senso di colpa è il segno della partecipazione soggettiva che accompagna il lavoro del lutto come evento traumatico.
La scomparsa della persona amata ha aperto un buco nella realtà soggettiva in cui si riversa la realtà psichica antecedente di cui il soggetto è partecipe e a cui dà un senso sulla base del proprio fantasma.(4)
Nel lutto, sappiamo da Freud, l’ombra dell’oggetto cade sull’io e il soggetto, preso in un godimento oscuro, mortifero, si identifica allo scarto. Allo stesso tempo il mondo, l’Altro, assume una colorazione persecutoria. Che si rispecchia nell’atmosfera dell’11 settembre, telecamere, cenere ovunque, i cartelli con l’ambiguo slogan: “Se vedete qualcosa, dite qualcosa”. Anche trasferirsi in California non basta, nel cielo ci sono grandi falchi che puntano Lolabel: la minaccia viene dal cielo, lo stesso terrore presente nello sguardo dei suoi vicini a New York. Allo stesso modo il pericolo dell’annullamento soggettivo è evocato dall’eventualità che i dati della vita di tutti i cittadini archiviati nel Cloud, si mescolino. Per il soggetto traumatizzato ricostituire il mondo, un mondo in cui poter vivere, in cui la sua immagine sia rispettata, significa ricostituire, attribuire agli oggetti un tratto comune che li renda desiderabili o almeno non minacciosi.
Nel lavoro del lutto, ci insegna Jacques Lacan, l’ombra dell’oggetto proiettata sull’io si può superare solo attraverso l’identificazione all’ideale dell’io: “Se der Schatten, l’ombra, quell’opacità essenziale che la struttura narcisistica apporta nel rapporto con l’oggetto, è superabile, è perché il soggetto può identificarsi altrove.”(5) Identificarsi a quell’Ideale che può sostituire il “narcisismo perduto dell’infanzia”.(6) In Heart of a dog la regista racconta di sua madre, che non amava, e di come ha potuto ritrovarne l’amore e con questo recuperare l’amore di sé. Il suo maestro di buddhismo tibetano le ha consigliato una Meditazione particolare: cercare il momento in cui sua madre l’aveva davvero amata. Non riusciva a trovarlo, finché un giorno le è venuto in mente un ricordo della sua infanzia: lei che spingeva sul lago ghiacciato la carrozzella con i suoi due fratellini gemelli. Il ghiaccio si ruppe e lei si tuffò nell’acqua gelida e li ripescò tutti e due. Andò di corsa a casa temendo molto la reazione della madre che le disse: “Quanto sei brava a nuotare sottacqua!”. L’aveva trovato, quello era il momento in cui l’aveva davvero amata.
Alla fine del film, Laurie Anderson con Lou Reed – che interpreta la coda musicale con il suo brano Turning Time Around “avere indietro il tempo, ecco cos’è l’amore / il tempo è ciò di cui non hai mai abbastanza” – sulla spiaggia seduti nella sabbia, la videocamera li riprende a formare una specie di mandala. La regista ha scelto questo brano per rappresentare la definizione che Lou Reed aveva dell’amore: “non qualcosa di nostalgico ma più simile al tempo, che gira in circolo e guarda in tutte le direzioni”.(7)
Il sogno iniziale si avvera: il soggetto ha partorito un nuovo amore, è giunto alla “liberazione dell’amore, la vita che prende un’altra forma.”(8) Un’invenzione a cui non si può giungere che attivamente, a cui Laurie Anderson è pervenuta seguendo la lezione del suo maestro: imparare a sentirsi tristi senza essere tristi. Un percorso in cui il buddhismo tibetano incontra l’insegnamento della psicoanalisi lacaniana in cui il soggetto è diviso dall’oggetto che non l’inghiotte nella sua ombra.
Chiara Mangiarotti
(1)http://www.tgcom24.mediaset.it/spettacolo/laurie-anderson-attraverso-il-cuore-di-un-cane-racconto-la-vita-e-la-morte-3030846-201602a.shtml
(2) J. Lacan, Il seminario. Libro VIII, Il transfert (1960-1961), cit., p.432, I sta per Ideale.
(3) J. Joyce, Ulisse, nella traduzione di Gianni Celati, Einaudi, Torino 2013, 3., p. 50.
(4) Cfr. F. Ansermet, Clinica dell’origine. Il bambino tra medicina e psicoanalisi, Franco Angeli, Milano 2009, p. 109. Il fantasma è una produzione di immagini, di racconti immaginati, da cui il soggetto trae soddisfazione. Freud lo ha dimostrato con il fantasma masochista Un bambino viene picchiato, attraverso cui il dolore è trasformato in piacere. Lacan ha chiamato la narrazione fantasmatica scénario, nel vocabolario cinematografico sceneggiatura, termine che si adatta perfettamente al fantasma narrato in un film. Il fantasma non ha solo un aspetto immaginario, ma è anche simbolico perché consiste in una frase, in cui il soggetto si articola all’oggetto che causa il suo desiderio, come avviene in Un bambino viene picchiato. Lacan scrive la sua formula: S/<> a. In essa emerge l’aspetto reale, di godimento, e dunque fuori senso, del fantasma. Il soggetto si completa dell’oggetto di cui può godere.
(5) J. Lacan, Il seminario. Libro VIII, Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino 2008, p. 409.
(6) S. Freud, Introduzione al narcisismo, Freud Opere,vol. 7, p.464, Boringhieri, Torino 1975.
(7) Intervista di Chiara Ugolini repubblica.it
(8) http://www.tgcom24.mediaset.it/spettacolo/laurie-anderson-attraverso-il-cuore-di-un-cane-racconto-la-vita-e-la-morte-_3030846-201602a.shtml